La pandemia ha spinto lo shopping online e ha aumentato la quantità dei prodotti resi. Con una serie di problemi a cascata: una riduzione delle vendite per le aziende (secondo IfReturns, piattaforma Saas che si occupa di resi e cambi, circa il 20% degli acquisti online viene rimborsato); un aumento dei costi logistici (il costo operativo di un reso oscilla tra 8-12 euro) e un incremento dell’impatto ambientale. «Il costo più tangibile che l’azienda deve sostenere nella gestione di un reso è il trasporto – spiega Marcello S. Valerio, fondatore e ceo di If Returns -, poi ci sono i costi operativi del magazzino e la “svalutazione” del prodotto». Una volta che viene riconsegnato nei tempi prestabiliti dalla legge (il Codice del consumo stabilisce un limite di 14 giorni per il recesso, ma molte piattaforme e negozi arrivano a 30 e alcune anche a 100 giorni), il prodotto infatti deve essere esaminato, igienizzato, reimpacchettato e questo procedimento impiega spesso tempi lunghi, col rischio che una volta rimesso sul mercato il prodotto debba essere, per esempio, messo in saldo. Sempre secondo una stima di IfReturns i resi venduti a prezzo pieno sarebbero meno del 55% del totale. Quello che pesa di più sui conti delle aziende, tuttavia, secondo Valerio è «la mancata vendita, dovuta al fatto che molte persone quando rendono il prodotto chiedono direttamente il rimborso». Secondo una ricerca di IfReturns, infatti, la perdita di entrate che deriva dai rimborsi si può stimare in 800 miliardi di euro nella Ue. «Le aziende devono cercare di trasformare il rimborso in un cambio – che deve soddisfare il cliente perché il 92% altrimenti non comprerà più sul sito – oppure in una gift card. Per fare questo ci vuole un processo digitalizzato che offra diverse opzioni al momento del reso», chiosa Valerio. Diverso è il caso della restituzione in negozio, sempre gratuita, visto che alimenta gli ingressi in boutique (e quindi potenziali nuovi acquisti). Le aziende hanno deciso di affrontare la sfida dei resi in modo diverso. Innanzitutto parte dei costi di restituzione, per il ritiro al domicilio (che è la modalità più scelta dai clienti), sono stati scaricati sui consumatori che nel 74% dei casi, secondo IfReturns, oggi pagano 3,5-4 euro a reso. Questo non solo per i prodotti di lusso: marchi del fast fashion come Zara e H&M hanno introdotto costi di spedizione dei resi che in Italia si aggirano intorno ai 5 euro per il marchio del gruppo Inditex e di 2,99 euro per il colosso svedese, l’ultimo a introdurre questa tariffa (ma non per i membri registrati della community). Ma l’addebito del costo non è l’unico modo con cui i brand puntano a ridurre i capi rimandati indietro: i resi sono dovuti nel 45% a problemi di taglia e l’investimento in strumenti che aiutino l’utente a comprare la misura giusta è un altro driver. Lo raccontano le aziende stesse: «Nel 2022 abbiamo chiuso con un tasso di resi del 12% – spiega Vincenzo Troia, general manager di Giglio.com -, tra i più bassi del mercato». Le motivazioni sono molteplici: «La nostra logistica ha un doppio sistema di controllo qualità; la nostra scheda prodotto è dotata di strumenti di size prediction che aiutano il cliente a trovare la taglia corretta; infine applichiamo delle return fee al fine di disincentivare comportamenti seriali». Il manager conferma come i resi, dopo la pandemia, siano tornati a crescere, in primis per problemi di taglia: «Tipicamente l’abbigliamento è interessato da tassi di reso più alti, in particolare i pantaloni», conclude. Se la piattaforma italiana ha investito in tecnologia e logistica, ma ha anche scelto di imporre un costo di reso, Mytheresa.com (nato in Germania, ma con gli Usa come primo mercato) opera in un segmento di puro lusso e, come racconta il ceo Michael Kliger al Sole 24 Ore, ha «mantenuto i resi gratuiti per 30 giorni come elemento chiave del servizio». L’azienda ha un tasso di resi «storicamente del 34-35%. Germania e Usa sono noti per averli tradizionalmente alti», e conferma che, anche a causa del problema delle taglie, l’abbigliamento è in cima alla lista dei resi. L’obiettivo, conclude Kliger, è «ridurre la quantità di spedizioni, per tagliare le emissioni di gas». Anche Zalando nasce in un mercato (la Germania) avvezzo ad acquisti prima per corrispondenza e poi in Rete e quindi abituato al concetto di reso. Ma il fatto che «un capo su due venga restituito in media nei mercati in cui opera» e «un terzo dei resi complessivi sono legati alle taglie», ha spinto il colosso tedesco dell’ecommerce a sviluppare strumenti per ridurre i resi, lavorando anche con l’AI: «Ogni giorno ci muoviamo lungo questa direzione e miglioriamo i consigli sulla vestibilità e sulle taglie, le descrizioni degli articoli e ottimizziamo la presentazione dei prodotti – conferma Riccardo Vola, general manager Italy and Spain Zalando – . Al contempo continuiamo a lavorare a soluzioni come, per esempio, l’assistente di moda sviluppato da ChatGPT, grazie al quale i clienti possono porre domande usando parole ed espressioni proprie e navigare in modo più intuitivo». C’è poi chi, come Veepee, piattaforma francese di flash sales, ha deciso di gestire il “problema” resi tagliando i prezzi: il servizio Re-Turn, lanciato nel 2020 in Francia, è sbarcato da pochi giorni anche in Italia e Spagna. «Re-turn sta riscontrando un successo crescente. Dal suo lancio nel 2020, 702mila articoli tra i resi sono stati rivenduti attraverso il servizio, dandogli una nuova vita», spiega Valentina Corbetta, country manager Veepee Italia. Che racconta nello specifico come funziona il servizio: «Quando un prodotto viene restituito, l’utente Veepee riceve un’etichetta prepagata e porta il pacco in un punto di ritiro. Durante il suo transito, il prodotto viene automaticamente aggiunto alla piattaforma dedicata, Re-turn, ed è quindi nuovamente disponibile per la vendita. Quando trova un nuovo acquirente durante il transito, viene intercettato, controllato e reindirizzato al proprio domicilio o a un punto di ritiro».