L’antagonismo tra commercio online e negozi fisici sta pian piano lasciando il posto a un’idea di integrazione dei canali di vendita. O almeno, così dovrebbe essere, visti i dati più recenti sull’e-commerce: nel 2022 la filiera degli acquisti digitali ha portato all’Italia 133,6 miliardi di euro, pari al 7% del Pil dello stesso anno. Di questi, 49,6 miliardi sono di contribuzione fiscale (ovvero il 9,1% sul totale delle entrate fiscali 2022). I numeri arrivano in anteprima dalla ricerca condotta da Netcomm in collaborazione con Althesys, che sarà presentata domani a Roma presso la Sala Cristallo dell’Hotel Nazionale, in occasione del convegno «Elezioni europee e commercio digitale – scenari futuri e prospettive per la competitività dell’Italia e dell’Europa». Del totale del gettito fiscale riconducibile all’e-commerce nel 2022, 28,9 miliardi di euro corrispondono all’Iva, 16,1 miliardi a imposte e contributi sociali sul lavoro e 4,5 miliardi alle imposte versate dalle società. In sostanza, lo Stato assorbe più di un terzo (37%) del valore prodotto dalla filiera del commercio online. Numeri che fanno pensare a un sistema industriale, più che a un singolo settore. Basti pensare che il contributo all’occupazione è stato di 1,6 milioni di addetti (il 6,4% degli occupati totali in Italia), per un totale di 35 miliardi di euro di salari lordi corrisposti. «L’e-commerce non è più il negozio online di 20 anni fa, ma è un’industria che contribuisce al Pil, all’occupazione, al gettito fiscale. Al pari dell’industria automobilistica o delle costruzioni, c’è una relazione di interdipendenza tra fornitori, produttori, logistica, pagamenti – ha spiegato Roberto Liscia, presidente di Netcomm –. È un settore che trascina occupazione e giovani provenienti dalle Stem; fa da detonatore dello sviluppo digitale delle aziende e dell’Ia, perché sappiamo che l’intelligenza artificiale si sviluppa solo se viene utilizzata. È un settore industriale vero e proprio che deve essere guardato – e governato – come tale, non come concorrente dei negozi fisici». E in effetti anche i commercianti offline sembrano aver abbracciato il concetto di ibridazione tra canali di vendita, spinti sì dall’esperienza del Covid, ma anche dalle decisioni di acquisto dei clienti, che vedono nel 38,9% dei casi l’influenza di touchpoint digitali. «Siamo in una situazione di forte evoluzione della multicanalità – prosegue Liscia –. L’indice di ibridazione delle imprese che abbiamo calcolato è al 3,9, il doppio rispetto all’1,7 di tre anni fa. Si è capito che il digitale accelera la competitività delle imprese, permettendo ai Paesi di competere anche a livello globale. È un tema su cui l’Europa si sta muovendo velocemente, e anche se noi a livello europeo rimaniamo il fanalino di cosa, comunque abbiamo una catena di valore». Insieme all’Associazione europea Ecommerce Europe, Netcomm ha portato avanti il «Digital Commerce: la nostra visione per il Futuro dell’Europa», un manifesto per le elezioni europee che verrà presentato domani. L’obiettivo è favorire lo sviluppo di un quadro normativo semplice, armonizzato e sensibile alle peculiarità del mercato italiano. «Le applicazioni dei vari atti approvati dal parlamento europeo – come l’Ai act – devono essere portate avanti dai vari Paesi in modo uniforme e armonizzato. Altrimenti le imprese avranno difficoltà a esportare i propri prodotti. Per esempio, serve una regolamentazione ad hoc per le nostre Pmi, che spesso non hanno competenze e risorse per attuare le norme europee. Dobbiamo accompagnarle in questo passaggio, facilitando la finanzia strategica, trovando meccanismi che favoriscano l’adozione dell’Ia, aggregandole così che possano raggiungere una dimensione di scala che le renda competitive sui mercati esteri. L’Italia esporta tantissimo, ma se non investiamo nel digitale non sosteniamo l’export».
Fonte Sole24ore